Dottoressa, ci racconta come nasce l’Unità “Salute e tutela della donna” all’interno dell’Istituto?
L’unità Salute e tutela della donna è nata dopo anni di lavoro sul campo, a Lampedusa come nel poliambulatorio e in vari hotspot, dove ci siamo resi conto che la salute delle donne migranti richiede un approccio multidisciplinare.
Abbiamo creato questo spazio come dispositivo dedicato alla salute femminile con ginecologhe, infettivologa, psicologa, assistente sociale, infermiera e antropologa. L’accoglienza è curata da mediatrici culturali e infermiere, che ascoltano la donna e individuano i bisogni prioritari. Può trattarsi di contraccezione, interruzione di gravidanza, certificazioni per la Commissione Territoriale per il riconoscimento dell’asilo o semplicemente di un controllo ginecologico.
Il nostro lavoro non si ferma alla risposta clinica. Quel che per noi è fondamentale è l’accompagnamento della persona migrante a conoscere i propri diritti, gli strumenti e le risorse del territorio. I primi incontri diventano così anche un momento di orientamento e di scambio, di espressione del bisogno portato, consapevole o meno, un’esperienza che arricchisce e rafforza la consapevolezza.
E in questo vostro impegno, oltre che dagli hotspot o da Lampedusa, come riuscite a raggiungere le persone che non accedono facilmente ai servizi sanitari?
L’Istituto promuove la medicina di prossimità, cioè la salute che va incontro alle persone nei luoghi di vita quotidiana. Partecipiamo all’iniziativa “Salute in camper” del Comune di Roma e organizziamo uscite periodiche in luoghi dove l’accesso alla salute è più difficile o dove le persone non cercano salute, ad esempio nei campi rom, nei centri occupati, nelle strutture di accoglienza come l’Esercito della Salvezza o la Casa Baobab.
In queste occasioni portiamo una équipe composta da infermiere, assistente sociale o psicologa e mediatrici culturali oltre allo staff medico. Distribuiamo materiali informativi multilingue dopo incontri e/o visite mediche e fissiamo direttamente in loco gli appuntamenti per le visite o altri accertamenti presso il nostro Istituto come anche presso il SSR. Chi non ha documenti o non ha una copertura sanitaria riceve comunque assistenza. In questi casi, per esempio, offriamo visite ed ecografie istituzionali gratuite, senza impegnativa. Collaboriamo anche con la rete del privato sociale come la Casa Santa Marta del Vaticano, che ci aiuta accogliendo le gravide senza copertura sanitaria per le prime ecografie ostetriche e gli esami essenziali, in attesa del perfezionamento per l’ottenimento della tessera sanitaria STP o ENI.
Al lavoro di sensibilizzazione e informazione si unisce l’educazione sanitaria come tema molto importante nel vostro lavoro. Come la portate avanti?
Nei progetti sulla contraccezione, sulla violenza o sulla tratta abbiamo sviluppato percorsi di educazione sanitaria rivolti alle donne. Le nostre sessioni combinano spiegazioni mediche con strumenti visivi come modelli anatomici, disegni, e materiale tradotto per superare barriere linguistiche e culturali.
All’inizio e alla fine del corso usiamo questionari per misurare la comprensione e l’apprendimento. Oggi l’istituto sta lavorando alla validazione di uno strumento scientifico per la valutazione dell’ health literacy, a cura dell’antropologa in collaborazione con l’Unità formazione.
Inoltre, organizziamo corsi aperti anche a operatrici e operatori dei centri di accoglienza, oltre che ai mediatori interculturali. L’obiettivo è costruire una rete di conoscenze condivise e rendere le persone protagoniste del proprio percorso di salute.
In questo c’è spazio anche per un confronto con le pratiche di medicina tradizionale dei Paesi d’origine delle vostre utenti?
Non direttamente sulle terapie, ma sulle pratiche sanitarie sì. Le nostre antropologhe lavorano con il personale sanitario per spiegare i significati culturali legati al corpo e ai fluidi biologici, o le paure legate al prelievo. Questo aiuta medici e infermieri a comunicare meglio con le pazienti e a costruire fiducia. Abbiamo anche formato medici di base sull’approccio antropologico al paziente migrante, per evitare fraintendimenti e/o rigidità.
Da molti anni si occupa anche di mutilazioni genitali femminili. Come affrontate il tema all’interno dell’Istituto?
Le MGF rientrano nella definizione di violenza di genere. Il nostro servizio “Salute e tutela della donna” segue casi di donne che chiedono la deinfibulazione o che presentano complicazioni legate alla pratica. Collaboriamo con il Centro MGF dell’Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma e, per la ricostruzione, una possibile futura collaborazione potrà essere con la chirurgia plastica e ricostruttiva dell’IFO di Roma.
Abbiamo organizzato corsi di formazione e incontri con esperti internazionali; l’ultimo incontro è quello del 4 febbraio scorso “Stop MGF” all’Istituto Superiore di Sanità. Ancora una volta, il nostro approccio è multidisciplinare: ginecologia, psicologia, mediazione culturale e consulenza legale. Offriamo certificazioni per richiedenti protezione internazionale e supporto durante la gravidanza o il parto.
Ma soprattutto lavoriamo sulla sensibilizzazione e sul dialogo interculturale. Per me, e per noi, informare le giovani donne, ascoltare le madri e sostenere chi decide di rompere la catena della tradizione è fondamentale. Come ginecologa, come africana e come donna, non posso accettare questa sofferenza. Ma credo che la soluzione non sia la criminalizzazione. Piuttosto serve dialogo, informazione e accompagnamento culturale. Le singole pratiche culturali vanno comprese nel loro contesto (loro origini, tradizioni e credenze) ma occorre lavorare perché si arrivi al rispetto delle disposizioni legislative (in molti paesi del mondo, le MGF sono proibite) e soprattutto dell’integrità fisica della persona. Se affrontate con rispetto e ascolto le comunità stesse e ogni persona coinvolta, ci renderemo conto che criminalizzare senza dialogo rischia solamente di condannare e allontanare chi ha bisogno dei servizi sanitari, rafforzando stigma e silenzi.
Ricordo una madre che mi chiese di poter fare solo il rito simbolico della “goccia di sangue” per sentirsi in pace con la propria cultura. Un gesto che in qualche modo avrebbe risposto al suo bisogno, o forse impegno, di mantenere e rispettare una tradizione, una parte della sua storia o suo ruolo sociale. Ma le spiegai che la libertà non passa dal rito. Passa dalla responsabilità e dalla possibilità di scegliere.
Le nuove generazioni di ragazze africane, e non solo perché le MGF sono presenti in tutti i continenti, hanno la forza per decidere per sé stesse, ma vanno sostenute, insieme ai genitori, nel cammino verso il cambiamento.