La storia di Mohamed inizia con un viaggio di un giovane di sedici anni pieno di paure ma anche speranze. Porta con sé le difficoltà di un ragazzo che attraversa frontiere da solo, ma anche la forza di chi vuole trovare un posto dove il proprio nome non vada perso.  La sua esperienza ci aiuta a capire il mondo dell’accoglienza: cosa funziona, cosa manca e quali strumenti possono davvero supportare i giovani migranti nel loro percorso di autonomia.

Mohamed arriva in Italia dall’Egitto nel 2012, e ciò che lo accoglie non è una struttura anonima, ma un centro di accoglienza che sa di casa. Una famiglia italiana che aveva trasformato il proprio quotidiano in un luogo di convivenza: il padre a gestire, la madre e i figli educatori, presenti e visibili. Lì condivideva la tavola e le giornate con ragazzi principalmente italiani e, più avanti, albanesi. In quella mescolanza imparava la lingua, ma soprattutto imparava a sentirsi parte di un gruppo. 

Eppure, anche in quell’ambiente così intimo, l’urgenza bussava forte: i documenti, il lavoro, la paura di restare indietro. A diciotto anni, la pressione di “sistemarsi” per non gravare su nessuno lo trascina nel magazzino di un famoso negozio di vestiti. Per otto anni la sua vita resta chiusa lì dentro, tra turni e scatoloni. Nessuno gli chiedeva chi fosse prima, cosa avesse studiato, quali desideri si portasse dietro e i suoi sogni. Nessuno gli ricordava che quel ragazzo parlava più lingue, che aveva ambizioni, che non era nato per un ingranaggio. Poi arrivano alcune persone che fanno la domanda che cambia tutto: “Chi sei, e cosa vuoi veramente?”

L’uomo che oggi abbiamo di fronte è un ponte. Restituisce quella domanda ai ragazzi con cui lavora. È educatore e mediatore culturale, soprattutto con adolescenti di origine araba. Vive l’accoglienza dall’altra parte del tavolo, ma con la memoria viva di chi quel percorso l’ha attraversato senza filtri. La sua esperienza è diventata una forma di militanza personale e professionale. 

Con lui parliamo della scuola, della lingua, della mediazione oltre una traduzione, dei passaggi verso l’autonomia e di comunità plurali.

Cominciamo dalla tua prima accoglienza. Cosa ricordi di quel periodo?

Sono stato accolto in un centro di accoglienza gestito da una famiglia, non in una struttura a turni. Vivevamo insieme. Io ero l’unico egiziano, il resto italiani. Parlare italiano ogni giorno mi ha fatto imparare la lingua molto più rapidamente di quanto pensassi. Gli educatori erano sempre presenti. C’erano attività, scuola, sport, qualcuno che ti guardava davvero. E soprattutto c’era un orientamento: capivi a chi rivolgerti, capivi dove stavi andando.

Ma l’urgenza era la stessa di quella di tanti ragazzi di oggi, tra documenti e la necessità di lavorare. A diciotto anni mi sentivo sulle spalle un grande peso: diventare indipendente subito e aiutare la mia famiglia. Sono finito in un magazzino di un grande negozio di vestiti per otto anni. Nessuno mi ha chiesto quali competenze avessi portato con me dall’Egitto. Così tanti ragazzi hanno fatto e fanno la mia stessa fine e con un italiano minimo finiscono nei lavori a bassa qualifica. Da lì non riescono più a uscire. Si abituano a vivere nel presente, senza futuro. 

Ero un ingranaggio di una sorta di catena di montaggio, con un italiano funzionale alla sopravvivenza, ma non abbastanza per competere in un ambiente professionale più complesso. Questa è la trappola. Si finisce spesso nei circoli chiusi del lavoro a bassa specializzazione. La scarsa conoscenza della lingua, unita alle difficoltà individuali legate ai singoli percorsi personali e agli ostacoli di vario tipo, favorisce l’ingresso in lavori a bassa qualifica.

Da lì è quasi impossibile uscire, perché è come muoversi sul tuo presente immediato. Il punto di svolta è arrivato solo quando ho incontrato persone che mi hanno chiesto: “Chi sei, oltre il magazziniere? Cosa vuoi davvero fare nella vita?”.  Io ne sono uscito solo quando qualcuno ha visto in me altro e mi ha aiutato a guardare più avanti. 

Oggi, nel tuo lavoro, anche tu incoraggi i ragazzi a studiare e a formarsi. Come si spezza, secondo te, il ciclo che li spinge a lavorare subito e rinunciare alla formazione?

Non si può convincere nessuno se prima non si riconosce il proprio valore. Spesso i loro studi vengono azzerati. Li si rimette a livelli troppo bassi, con percorsi rapidi che non li portano lontano. Se lo studio e la formazione non aprono opportunità reali, sceglieranno sempre il lavoro immediato. Vedono i pari o altri connazionali che mandano soldi a casa e quello diventa il modello. Ci sono tante pressioni addosso, e a volte anche difficoltà personali. Ogni situazione ha le sue particolarità ma penso che dobbiamo andare oltre l’assistenza in senso stretto. I giovani migranti sono persone che portano con sé storie, capacità e visioni. Serve un orientamento continuo. Serve mostrare che esiste un futuro diverso. Non è facile per mille ragioni, lo so, ma dobbiamo costruire insieme visioni lungimiranti. 

Dobbiamo guardare al futuro prossimo. 

Che ruolo ha la mediazione in questo percorso?

La mediazione non è solo qualcuno che traduce delle carte o delle regole. La mediazione intesa come cura, come la intendiamo noi, è un processo di accompagnamento attivo. Non è solo tradurre le parole, ma tradurre il contesto e il sistema.

Significa stare dietro al ragazzo, significa fargli capire perché quel documento è importante e come funziona quel servizio pubblico in un contesto nuovo. Significa essere un modello credibile che parla la sua lingua e che ha già fatto quel percorso, non un assistente che arriva, parla per due minuti e se ne va.

Serve presenza e soprattutto creare legami di fiducia. 

Molti MSNA, compiuti i 18 anni, si ritrovano improvvisamente soli. È un problema di informazione o di accompagnamento?

È un problema di accompagnamento spezzato. Quando sono arrivato io, c’era più interazione, più contatto con l’esterno. Oggi, si tende a raggruppare i ragazzi per nazionalità in centri monolitici. Così non imparano la lingua, non costruiscono reti al di fuori del loro gruppo, e restano nei “ghetti” linguistici.  La cosa più grave è che a 18 anni, se sei fortunato  ricevi un decreto di prosieguo amministrativo a 21 anni, ma spesso nel momento cruciale in cui i documenti sono in ritardo (2-3 anni di attesa), questi ragazzi restano spesso da soli. Senza casa, senza un contratto, con un livello di italiano non adeguato. E questo perché non sempre questi giovani sono informati e orientati con chiarezza sulla complessità dell’accesso ai servizi pubblici, sulle tappe tra un permesso e l’altro e sui requisiti per l’autonomia. Manca un progetto di vita a lungo termine.

E allora cosa serve per costruire comunità realmente attente e plurali?

L’accoglienza deve smetterla di essere un meccanismo di omologazione. Deve vedere l’individuo: “Cosa ti piace? Quale è la tua storia?”. Bisogna andare oltre i livelli base di italiano e il primo lavoro disponibile. È qui che si costruiscono le comunità plurali.  Dobbiamo creare spazi dove i ragazzi non si vedano solo tra di loro, dove il contatto con la società esterna non sia l’incontro con l’assistente sociale, ma la partecipazione attiva a spazi culturali, politici, professionali. Dobbiamo investire nella loro formazione professionale alta e, soprattutto, qualcuno deve credere in te. Dobbiamo chiedere a quei ragazzi: “Ma cosa vuoi fare?” “Come immagini il tuo futuro?” Quella fiducia è la vera chiave che ti fa superare otto anni in un magazzino e ti permette di diventare l’educatore che sei oggi.

***

Mohamed Abdelsamad è un educatore presso l’Associazione Progetto Arcobaleno; è anche un mediatore interculturale in arabo nella città metropolitana di Firenze, lavorando principalmente con minori stranieri non accompagnati. Lavora anche come Youth Coach nel progetto U-Lead del Migration Policy Center dell’Istituto Universitario Europeo, che unisce giovani liceali, minori stranieri non accompagnati e ricercatori.***

Può interessarti: